Mattino 5 ospita l’influencer Antonella Fiordelisi, la critica sul brand
Fine della radiazione dalla Mediaset per Antonella Fiordelisi, invitata questa mattina in collegamento su Mattino Cinque in occasione del servizio sul caso Chiara Ferragni, in particolare dell’influenza che i lavori sui social hanno sui giovani.
Chiamata a rappresentare la sua principe professione di influencer in un contesto in cui si voleva rimarcare il lavoro delle sponsorizzazioni con un’impronta negativa, la Fiordelisi è stata impeccabile. Con eleganza e il suo nuovo profilo più maturo e professionale rispetto al passato ha saputo rispondere con spontaneità alle domande poste.
Quanto guadagna per un post?
Il suo guadagno parte dai 5000 mila euro per un post pubblicato su Instagram in cui, come da lei spiegato, sponsorizza una pluralità di prodotti con lo scopo di influenzare le decisioni di acquisto del suo pubblico. Motivo per cui Antonella Fiordelisi ha evidenziato la responsabilità del suo lavoro e la sua personale attenzione per ciò che pubblicizza.
Nel mio caso io faccio pubblicità a un po’ di tutto: dalla moda, al beauty, a prodotti specifici. Anche se vorrei puntualizzare che noi, anche se non sembra, abbiamo tanta responsabilità. Essere una influencer significa avere un certo impatto mediatico su un pubblico attraverso la creazione di contenuti digitali, quindi va ad influenzare tendenze, opinioni e magari comportamenti. Quindi i giovani d’oggi prendono come riferimento noi influencer. Dobbiamo stare molto attente perché abbiamo tantissima responsabilità. Io in primis, prima di sponsorizzare un prodotto, lo testo per un mese per poi essere sicura di poterlo pubblicizzare.
Lavorare sui social: è davvero un lavoro?
Non si può negare una realtà che esiste e fattura, anche tanto: lavorare sui social, da influencer o in altre vesti è un lavoro, che piaccia o no, offrono dei servizi per cui si guadagna.
In procinto dell’evoluzione sempre più tecnologizzata del mondo del lavoro, sarebbe auspicabile sradicarsi dall’idea del lavoro nella concezione cristiana, al limite del bigottismo, in cui una professione debba per forza essere faticosa, un surplus di sacrifici a rendimento minimo.
Non si può negare che il lavoro da influencer ne vale la pena in prospettiva di un riscontro economico privilegiato, ma la visione ostica di questa professione è fin troppo superficiale. Essere al centro del mirino attento del web significa vivere con la consapevolezza che basta un errore, anche minimo, per perdere credibilità e affidabilità. Molte influencers, come Antonella Fiordelisi sono vittime di insinuazioni e hate speech quotidianamente anche solo per una frase sbagliata o per aver mostrato la fragilità che si nasconde dietro una vita apparentemente perfetta.
La critica sul brand
Nella diretta di questa mattina, non sono mancate le critiche di un ospite presente in studio su uno dei brand con cui la salernitana collabora da anni come moltissime altre influencer.
“Avrei da dire sui prodotti che sponsorizza. Il suo profilo l’ho visto, mi sono documentata…E sinceramente sponsorizza un’azienda di abbigliamento che non rispetta i diritti umani.”
Il brand in questione è Shein, azienda di fast fashion con un fatturato di 100 miliardi, accusata di sfruttamento e materiale tossico da molti anni che tuttavia continua a spopolare sul mercato internazionale. Siamo tutti a conoscenza dell’inchieste negative su diversi brand di fast fashion ma questo non ha mai fermato nessuno dall’acquistare i loro capi. La colpa, però, non risiedere principalmente nelle influencers: il loro potere è minimo rispetto all’algoritmo che incessantemente manipola bisogni e desideri attraverso le pubblicità invadenti create ad hoc per essere visionate dagli utenti.
Il mercato del fast fashion funziona: al target piace la convenienza che ne deriva e consapevolmente sceglie di non prendersi la responsabilità etica di ciò che si nasconde dietro il proprio acquisto. Dunque, bisognerebbe chiedersi il perché sono rimasti in pochi ad essere disposti a spendere per acquistare vestiti e accessori di aziende che rispettano i diritti umani e l’ecosostenibilità dei tessuti piuttosto che concentrarsi sulle influencers a cui spetta il mero compito di prestare la propria immagine ad aziende senza dubbio sbagliate ma perfettamente regolamentate.
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